Salvatore Natoli, Prefazione
Non entro nel merito dell’ipotesi formulata da Amos Luzzatto, secondo cui Qohelet – almeno quello che parla – sarebbe una donna. Lascio ai filologi e ai critici del testo il compito di definire la validità o meno di una tale ipotesi. Per quanto mi riguarda, non mi meraviglia affatto che parole di sapienza siano poste sulle labbra di una donna e che proprio a un donna sia assegnato il compito d’essere maestra di verità. Lo è certamente nel Simposio di Platone: lì è Diotima, donna dotta di Mantinea, che interroga Socrate e gli svela la vera natura di Amore. Ma uomo o donna che sia, chi, fin dall’inizio, entra da protagonista è l’individuo.
Si tratta di una sorta di io narrante e osservatore, che racconta di sé e delle sue esperienze. Qohelet è un soggetto narrante che molto ha vissuto e ha visto, che ha osservato come vanno le cose nel mondo e in base a questo racconta, consiglia, giudica… Protagonista è sempre e uniformemente l’io. D’altra parte Qohelet, da empirista conseguente quale cerca d’essere, non può che parlare del mondo a partire da sé; per la medesima ragione nel momento in cui parte da sé ne prende anche le distanze. Infatti, per comprendere davvero le proprie esperienze è necessario oggettivarle, guardarle come da fuori. Ma soprattutto bisogna guardare da fuori se stessi, come se si fosse un altro.
È perciò necessario che l’ enfasi dell’io venga limitata al massimo proprio nel momento in cui se ne tematizza l’esperienza: è necessario portarsi al margine perché l’andatura del mondo possa emergere nella sua verità. Per questo, mano a mano che si procede nella lettura di Qohelet, l’io parlante si trasforma sempre di più in una sorta di voce fuori campo.
Qohelet è tutt’altro che pessimista – come si crede e come è fatto valere da letture macabre e decadenti – ma è piuttosto realista: ricorda fin dall’inizio a ogni uomo di avere consapevolezza e memoria della propria finitezza e di deporre perciò ogni orgoglio e ogni mania di supremazia.
Certo, vi sono tanti e giustificati motivi per odiare la vita, specie quando ci si è spesi senza riserva per qualcosa che alla fine si è rivelato inconsistente ed effimero. E non tanto perché transitorio, ma perché illusorio in se stesso.
In Qohelet, infatti, non c’è una protesta che nasce dalla sofferenza, non c’è, come in Giobbe, la chiamata in causa di Dio innanzi allo scandalo del dolore innocente, e soprattutto all’evasione della sua promessa, ma vi è piuttosto una delusione da successo, una sorta di nausea da sazietà.
«Ho raccolto argento e oro – si legge – […] mi sono fatto dei corifei, uomini e donne e una moltitudine di concubine che sono la delizia del genere umano […] Ho considerato tutte le azioni fatte dalle mie mani e l’impegno profuso, ed ecco: tutto è alito evanescente, inseguimento del vento» (2,8.11). Ma da dove questa delusione? Viene spontaneo domandarselo e si potrebbe rispondere, leopardianamente, che il desiderio umano è infinito ed è perciò esposto costitutivamente alla delusione. Oppure può capitare – e capita di frequente – di sopravvalutare i nostri obiettivi, di puntare unilateralmente su di essi illudendoci che la felicità stia nelle cose e nei beni, non piuttosto nelle relazioni, nel rapporto giusto con gli altri e con il mondo. E, spesso, dopo la delusione si ricomincia da un’altra parte con lo stesso strabismo e la medesima unilateralità.
È difficile reperire un testo ove sia presente una tale e tanta reiterazione dell’io. E se la delusione nascesse proprio dall’idolatria del sé, dall’elevare ad idoli le opere delle proprie mani, ritenendo di trovare in esse la propria più compiuta realizzazione?
Che un maestro del giudaismo la pensi così è normale e perfino ovvio. Per questo il testo di Qohelet, lungi dal denigrare la vita, ne demolisce gli unilaterali strabismi e, lungi dall’essere pessimista, è invece un buon consigliere sul da farsi, ci sollecita a vivere la vita con equilibrio e misura.
Amos Luzzatto, Chi era Qohelet?, Morcelliana, Brescia 2011
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